50 anni fa usciva nelle sale il sovversivo Arancia Meccanica di Kubrick, ancora oggi un capolavoro tra cinema e letteratura

Il 19 dicembre 1971 i cinema newyorkesi hanno l’audacia di proiettare una delle pellicole più audaci di sempre. Lo ricordiamo rileggendo il romanzo da cui è stato tratto

DA BURGESS A KUBRICK

Era il 1962 quando Anthony Burgess, scrittore britannico, critico letterario e sperimentatore di linguaggi, pubblica una vera e propria bomba a orologeria. Non sappiamo dire se il pubblico fosse pronto, sappiamo solo che la bomba è scoppiata, e ancora oggi ne sentiamo il rumore. Complice del successo di questa storia è stato il meraviglioso lavoro di Kubrick sulla trasposizione cinematografica, che ha reso Arancia meccanica un classico atipico, eterno, ancora carico di una potenza sovversiva capace di trascendere i decenni.

Sebbene molti siano ancora della scuola di pensiero (un pò estremista, va detto) secondo la quale “il libro è sempre meglio del film”, Arancia meccanica metterà in difficoltà anche i più rigidi: il romanzo fantapolitico di Burgess, raffinato nella sperimentazione linguistica e, allo stesso tempo, estremamente viscerale nel contenuto, viene accolto, studiato, compreso dal visionario genio della telecamera che fu Stanley Kubrick, il quale è riuscito a raccontare la violenza in maniera cruda e realistica pur rimanendo in una cornice estetica che ancora oggi fa scuola.

Ma cosa ha permesso ad Arancia meccanica di diventare quel che è oggi? In che modo si è destreggiato tra le critiche e le ovazioni? Di cosa parla davvero?



PER UNA RIFLESSIONE SULLA VIOLENZA DI TUTTI

La trama spiccia di A clockwork orange è nota in lungo e in largo: Alex e i suoi “drughi” passano il tempo compiendo furti e violenze nella cornice di una società futura che alcuni definirebbero distopica. A dir la verità, questa società non solo non è delineata in maniera autonoma nel romanzo, ma anzi il lettore la ricostruisce proiettando sull’esterno le caratteristiche specifiche dei personaggi che la popolano: Alex è un bel ragazzo, appassionato di musica classica, sveglio, ma, come scrive lo stesso Anthony Burgess parlando del suo anti-eroe, “veramente malvagio, a un livello forse inconcepibile”. Quel che sviluppa la riflessione che innerva il testo è proprio questa intrinseca malvagità, in quanto “la sua cattiveria non è il prodotto di un condizionamento teorico o sociale: è una sua impresa personale in cui si è imbarcato in piena lucidità”.

Muovendo, più o meno direttamente, dalla nietzscheana concezione dell’Ultrauomo, Burgess compone un terrificante - eppure veritiero - affresco dell’essere umano, giocando su un’immagine paradossale: l’Alex violento per natura viene snaturato dalla cura Ludovico, una sorta di lavaggio del cervello che annulla la libertà di scelta dell’individuo che vi si sottopone, lasciandogli solo la capacità di fare meccanicamente il bene. L’effetto straniante sta già tutto nel titolo, “clockwork orange”, ovvero “arancia a orologeria”: pare che l’intento di questo titolo fosse unire due immagini tanto distanti tra loro quanto lo sono l’arancia - frutto succoso, colorato, che rappresenta la vitalità - e l’orologio, che sta per una modalità di funzionamento puramente meccanica. Una delle citazioni più eloquenti del romanzo, che ne racchiude a pieno la forza, è sufficiente a far comprendere la portata della riflessione filosofica che passa per questo capolavoro della letteratura: “Che cos’è che Dio vuole? Dio vuole il bene o la scelta del bene? Un uomo che sceglie il male è forse in qualche modo migliore di un uomo cui è stato imposto il bene?”.